La scarsa rappresentazione e la mancanza di stimoli può portare a non credere in se stessi, a non sapersi immaginare in grande, ma nel momento in cui si arriva alla piena consapevolezza del proprio potenziale si ha la possibilità di creare quello che gli altri definiscono impossibile…

Ecco la storia di Evelyne, imprenditrice e consulente ricciafro che ha dato forma all’impossibile creando Nappytalia...
Vorrei che tu mi raccontassi del tuo percorso identitario, come ti sei sentita nella tua infanzia, adolescenza e come ti percepisci ora.
Se mi riguardo indietro a quando ero bambina, alla mentalità e all’approccio che avevo e quando penso anche all’adolescenza, che alla fine non ho avuto, mi sembra che io abbia vissuto due vite completamente sconnesse.
Sono cresciuta con un’idea distorta del mio essere e del mio potenziale, da una parte sono felice perché non ho percepito il peso della diversità, ma allo stesso tempo vivevo dei complessi di inferiorità che manifestavo con piccoli gesti.
Facendo un’analisi più profonda ora capisco che fosse un segnale evidente di una mancanza, da piccola fisicamente non mi piacevo, non lo davo a vedere, agli occhi degli altri ero sempre il “ Bel cioccolatino” “La bella Tusa”, nomignoli anche in brianzolo a cui non avevo dato un grande peso, ma ora conoscendo Faccetta nera e Black Face mi rendo conto che ridevo riguardo qualcosa su cui non avrei dovuto ridere.
Durante la mia adolescenza ho cominciato a percepire la mia “diversità”, un momento particolare in cui entrano in gioco altri fattori tipo fidanzatino, aspetto fisico, cose che ci colpiscono più al livello emotivo, nel nostro io… e lì ho cominciato ad avere dei segnali, sono diventati forti quando ho iniziato a lavorare a Milano.
Andavo all’università, La Bocconi, 10 anni fa c’era una situazione diversa, solamente 9 classi, ora ce ne sono di più ed è luogo più accessibile.
Gli sguardi che percepivo quando entravo lì erano di persone che nella loro mente si chiedevano che cosa ci facessi lì, mi hanno anche scambiata per la donna delle pulizie. In classe mi sentivo a mio agio perché l’ambiente era misto, fuori quando eravamo con le altre 8 classi facevo l’afroamericana della situazione perché purtroppo c’è una distinzione netta, fra essere neri in Italia ed essere afroamericani, nel secondo caso vieni considerato il “top” e quindi cercavo di camuffarmi.
Mi ricordo l’episodio di un inserviente che entrò e fece una domanda, fui l’unica a rispondere, lui sottolineo il fatto che parlassi bene la lingua italiana, è stato l’inizio di un’analisi di come le persone mi vedevano da fuori, facevo cose a cui non riuscivo a dare una chiave di lettura vera.
Questo episodio mi ha dato la possibilità di vedere quello che io vivevo in maniera differente, non è stato un momento facilissimo, perché per agli altri il fatto che io parlassi italiano, che fossi onesta non importava minimamente, mi vedevano solo come nera, africana e magari prostituta, ladra…
Questi aspetti per una persona che si è sempre rimboccata le maniche, sono devastanti poiché notavo che veniva ridotto tutto al colore della pelle, con la consapevolezza che ho oggi capisco che all’epoca “It was a real struggle” ora ho persone con cui confrontarmi… prima non c’era nessuno e pensavo di estremizzare invece ora mi rendo conto che ho tenuto botta e di brutto.
Penso che per quelli nati prima degli anni 90 in Italia sia stato molto difficile, l’idea di senso di comunità in chiave afroitaliana e afrodiscendente è nata negli ultimi sei anni e facciamo ancora fatica, ci stiamo riscoprendo, anche per il semplice fatto di parlare con la comunità afrobrasiliana e scoprire che hanno legami ancora con la Nigeria, Ghana e sentire persone pronunciare parole in Twi.
Ci vorrà tanto per rimettere i pezzi insieme e ricostruire il nostro percorso, abbiamo un vantaggio però rispetto ad altre situazioni: conosciamo le nostre radici.
Le uniche persone nere che conoscevo, quando ero piccola, erano i miei genitori o amici loro, ma c’era un gap generazionale nel concepire i fatti della vita, per dire mia madre quando ho trovato il mio primo lavoro come commessa, 14 anni fa, era contentissima era il lavoro della vita nella sua visione e addirittura c’erano persone che entravano solo per guardarmi.
A 23 anni ho conosciuto i primi neri in Italia, magari non nati qui però avevo un confronto, ed avere uno specchio simile a me con cui confrontarmi a 23 anni è stato un processo arrivato molto tardi.
Quando avrò figli spero di infondere a loro consapevolezza, di dare strumenti per essere loro stessi tutto quello che io non ho avuto.
Ancora oggi faccio fatica con i miei genitori, che non capiscono la mia imprenditoria e succede anche quando devo parlare con degli investitori, che non apprezzano appieno le mie competenze, la figura imprenditoriale della donna nera c’è ma non esiste nell’immaginario collettivo.
Come ti vedi ora?
Ora sono afrodiscendente, italo-ghanese, imprenditrice e questo ultimo termine ci ho messo molto ad utilizzarlo perché faccio impresa dal 2015 e mi sono definita così solo quando nel 2018 ho aperto la mia seconda partita IVA, e spero che rimarrò impressa nell’immaginario o nella storia come qualcuno che ha fatto qualcosa per cambiare tutto questo.
Sono le definizioni che voglio siano accostate a me…
E’ la prima cosa che ho imparato ovvero autodefinirmi ad ogni tassello che aggiungo alla mia identità, perché essa non è ferma, si evolve, in base ai viaggi, libri persone, quindi all’inizio mi definivo afroitaliana, e oggi per me è importante essere più incisiva e sottolineare le mie radici è per questo che utilizzo il termine italo- ghanese.
Usare il termine afrodiscendenza è riconoscere la culla africana, un omaggio per la scarsa valorizzazione di quello che è stato il continente africano per il mondo.
Mi discosto dal termine, afroitaliano in quanto singolo, ma più come collettivo di rappresentanza, con l’obbligo di autodefinirsi come singoli.
Anni fa ero fra le prime che utilizzava questo termine, ma ora mi discosto perché c’è questa critica, che veniva fatta tempo fa che ora capisco; ci si accostava agli afroamericani, nonostante questo all’epoca riconoscevo un concetto di comunità legato da “afro” per i capelli, che riguarda anche il mio lavoro, e una community che era fortemente afrodiscendente, e per legare ragazzi dal Ghana, Nigeria, Tanzania ecc era necessario per accumunare tutti, ma riconosco anche che questa costante critica mi ha fatto pensare che l’Africa è talmente grande che non ci sarà omogeneità, magari delle similitudini.
È giusto che ci identifichiamo nelle nostre radici…
Un punto importante è il fatto di mirare alla concretezza, se mi prefiggo un obiettivo lo porto a termine, preferisco persone che sono realiste e che portano qualcosa nel piatto, sto affermando qualcosa che va contro di me visto che lavoro nel mondo del beauty, però penso che si debbano utilizzare i nostri lavori come veicoli per mandare messaggi più forti, penso ci sia molto narcisismo nella comunità afroitaliana e questo non ci salverà anzi ci rovina, e ci sono persone concrete che fanno cose, sto facendo delle consulenze con ragazzi in cui vedo molto potenziale, vedo la determinazione, perseveranza, questo è quello che dovrebbe essere un esempio, si butta tutto sul fashion, capelli e makeup frivole, ma se tu prendi una cosa frivola e ci costruisci un business per dare un messaggio allora lì stai facendo un cambiamento.
Ad oggi ho lanciato una linea di prodotti eco-bio, per capelli ricciafro e ricci e spesso mi dicono che sono una parrucchiera e io rispondo che sono un’imprenditrice; sono due cose totalmente diverse, faccio anche quello, ma la mia dote è stato trasformare un’idea in qualcosa di concreto che fa economia.
Vorrei che i ragazzi e ragazze afroitaliani non si fermassero a quelle etichette che ci sono state messe addosso.
Trasformiamo queste doti che abbiamo, con carica, ed alziamo il livello…
Ho notato che c’è poco supporto fra la comunità afroitaliana e che si tende a denigrare le persone anche se effettivamente portano valore ed onore a tutta la comunità è una cosa che hai riscontrato anche tu?
Quando ho fondato Nappytalia ho subito degli attacchi personali molto forti, il concetto che io portavo avanti di definirsi italiani e ghanesi, era un concetto che la comunità africana rifiutava ed anche gli italiani autoctoni visto che per alcuni non esistevano neri italiani.
E io mi dicevo che anche se lo spazio non esisteva, motivo per cui ho scritto una frase particolare sulla mia Bio di Instagram “Se l’opportunità non esiste io la creo” è perché è una cosa che tutti dovrebbero fare indipendentemente dall’origine, la comunità Afro in Italia è particolare: piena di preconcetti e pregiudizi quasi tutto già formato preriscaldato e inculcato è c’è tanto da rimuovere, questa è una premessa generale.
Se andiamo nello specifico nella comunità c’è anche scarso sostegno ed invidia, non se ne parla spesso, molti preferiscono fare finta di essere paladini degli afroitaliani, ma proprio a discrezione personale poi decidono di escludere alcuni anche se queste persone fanno veramente la differenza.
Quindi ci vorrebbe una sorta di sostegno neutro per crescere tutti insieme come community.
L’imprenditoria ti ha aiutato nella tua fortificazione e cosa rappresenta per te l’imprenditoria?
L’imprenditoria ha fortificato realmente la mia identità, soprattutto avendo avuto questi limiti e complessi di inferiorità, essa quindi rappresenta tutti i giorni la prova che io sono una donna imprenditrice, perché lo sto già concretizzando, come quando dicono “il canto mi ha salvato”, l’imprenditoria è stata la mia salvezza, partendo da zero e riuscendo ad arrivare a dei punti solidi è sorprendente!
Sono molto autocritica e voglio sempre di più, però mi rendo conto di quando mi dicevano che i neri non fanno queste cose, che fosse una follia solo pensarlo, invece quello che sto facendo è una conferma quotidiana che tutto è possibile.
Sento spesso persone parlare di approvazione da parte degli altri, non ho bisogno di questo perché i fatti parlano più delle parole, io parlo con i fatti, i fatti quando sono lì possono solo che essere riconosciuti.
Penso che questo possa essere un esempio di come andare a cambiare l’immaginario collettivo, la famosa rappresentanza che va di moda, nei fatti è questo.
Finché non ci saranno molte più imprenditrici nere ed altre figure professionali che dimostrano che è possibile un cambiamento, l’immaginario collettivo rimarrà sempre lo stesso e soprattutto bisogna dare la possibilità alla società italiana di associare altro al corpo nero.
L’imprenditoria rappresenta la mia vocazione, quotidianità, e fantasia, l’imprenditoria mi salva, sono stata male, depressa un anno, ma lavoravo, quei 30 minuti ce li mettevo, quindi è la mia salvezza, per fare imprenditoria devi amare quello che fai; gli imprenditori che lavorano solo per i soldi non vivono bene.
Il tuo lavoro ha un impatto sulla tua comunità di riferimento?
La risposta è sì, nonostante la vecchia generazione non credesse in questo progetto. E’ un punto di riferimento, mi rendo conto che sto diventando una realtà fondamentale anche nel discorso di empowerment relativo alle donne. Vedo un impatto fra i miei followers ed il fatto che siano affascinati da questa resilienza.
Come ti vedi da qui a 5 anni? E cosa vorresti per i tuoi figli che non hai avuto?
Mi vedo una donna imprenditrice di un certo calibro che si siederà ai grandi tavoli.
Una donna che conta.
Spero di tornare in Ghana, il futuro è in Africa, voglio contribuire in maniera economica non basta professare le iniziative come l’Year of Return che sono promosse per far girare l’economia e mi piacerebbe vedere anche la parte relativa agli investimenti.
Spero di esportare Nappytalia in Africa.
E cosa vorresti per i tuoi figli che non hai avuto?
Forse dovremmo guardare ancora più in là, 50 anni, quello che mi sento di poter e voler lasciare è un esempio, una consapevolezza e magari una storia che possa ispirare ma non di più, non salveremo i nostri figli come noi ci stiamo salvando da soli in base alla nostra epoca… Quello che possiamo lasciare sono degli strumenti per permettergli di vivere con l’assenza di complessi di inferiorità…
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