Il paradosso della Donna africana

Nel corso degli ultimi mesi ho avuto modo di leggere articoli riguardanti la donna africana ed ho constatato come sia facile offrire diverse interpretazioni di essa a seconda del luogo di nascita, abitudini, pensieri e virtù…soprattutto nel contesto italiano la prospettiva che più mi preoccupa è la continua distinzione fra donna africana e donna afro-italiana come se si potessero avere dei canoni di giudizio fissi e misurabili in ogni figura nera che ci si prospetta davanti.

Il voler distinguere e/o trovare parallelismi fra le due figure in un tentativo di cambiare la narrativa generale sulla donna africana tende a confermare gli stereotipi o addirittura per cercare di distruggerli si rischia di crearne di nuovi.

Come succede in tutte le dinamiche del mondo si tende ad etichettare un determinato gruppo di persone in base alla provenienza ed in base a svariati fattori che portano il gruppo preso in considerazione a comportarsi secondo l’etichetta che viene affibbiata.

Questo è quello che accade con la donna africana: in diversi ambiti non si fa altro che creare etichette ed aspettative su come dovrebbe essere una donna africana DOC: questo fa sì che vengano messi in crisi il lato identitario ed il grado di soddisfazione delle aspettative.

La mia considerazione non vuole e non deve essere un’ulteriore generalizzazione, ma proverò solamente a verbalizzare qualcosa che sento nel profondo.

In tante argomentazioni che ho avuto modo di leggere la donna africana è in larga parte descritta come una donna aggressiva, una donna forte, una donna diversa dalle altre che si sottomette per il suo uomo, una donna che deve saper cucinare, che deve saper sbrigare le faccende della casa, che deve necessariamente saper accudire dei bambini, che deve essere in grado di gestire le proprie emozioni, in grado di non mostrare debolezza, in grado di essere sempre pronta a reagire e combattere, ma sempre in una sorta di sottomissione verso la figura imponente maschile.

La donna africana viene descritta come un essere che si piega al volere della società: ha bisogno di alterare i capelli; ha bisogno di alterare la propria pelle; ha bisogno di avere determinate caratteristiche fisiche e deve rappresentare sempre un modello perfetto piegato e accondiscendente alle richieste dell’esterno.

Insomma tutte queste imposizioni, percezioni e considerazioni dettate da una metodologia conscia o inconscia impongono alle donne africane di sentirsi in obbligo di esistere in un certo modo e appunto di soddisfare delle aspettative.

Mi fa sorridere che l’ostacolo di vivere la propria essenza in quanto donna africana provenga dalle considerazioni di altre donne sempre africane, ma soprattutto come nota dolente da uomini neri che non esaltano la donna africana e che la distruggono in svariati modi.

Il tutto poi si ricollega al fatto che  siamo abituati ad interpretare il mondo secondo una visione dualistica tipicamente occidentale: ovvero sentiamo il bisogno di classificare le persone o le cose scegliendo un’etichetta che ci sembra adeguata a descrivere l’oggetto e/o la persona pres* in considerazione; tendiamo sempre a sentirci in obbligo di scegliere tra il giusto e sbagliato; fra donna e uomo; tendiamo ad imporci di definire l’orientamento sessuale; ci imponiamo il dovere di porre una dannata etichetta.

Ma non vi piacerebbe vivere una vita in cui non si sente quotidianamente il bisogno di inquadrare la vita in qualcosa di definito che in realtà è in continua mutazione?

Nel mondo utopico che sogno non esistono etichette, non esistono barriere, non esistono aspettative, non esistono imposizioni. Esiste la libertà di essere e di esprimersi per tutto ciò che si vuole essere.

Non dovrebbe esistere dunque questa distinzione dualistica che ci impone delle etichette anche nel mondo delle donne africane.

La donna africana nel mio mondo utopico è una donna consapevole del proprio potere della propria sensualità, della sua indipendenza, del suo vivere che non dipende per forza da un uomo, del suo vivere che se collegato ad un uomo è un connubio di essenze volte al raggiungimento degli obiettivi più soavi della della vita.

Nel mio mondo utopico la donna africana con la sua consapevolezza deve portare avanti la fierezza di avere un bagaglio così vasto e ricco e deve poter operare e tornare ad avere la centralità che ha avuto per millenni.

Nel mio mondo utopico sogno la donna africana in qualsiasi sfumatura come una donna in grado di poter sfoggiare la sua pelle disprezzata con fierezza e magia.

Dedicato a tutte le donne africane e afro- italiane che non vogliono più etichette

Akosua O.T.

8 commenti Aggiungi il tuo

  1. Donna del mondo ha detto:

    Un punto di vista interessante . Ma allora io mi chiedo se non sia il caso di dedicarlo non solo alle donne africane, ma a tutte le donne del mondo? Se vogliamo veramente abbattere le etichette possiamo perlomeno dire che una donna è donna in primis, dopodiché una donna diventa lavoratrice, amica, madre, figlia, moglie e per ultimo, africana, italiana, asiatica, europea, Latina etc.

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    1. Akosua O.T. ha detto:

      Grazie mille per il punto di riflessione! Sono partita dalla dimensione africana poiché è quella che conosco e per certi versi vivo di più, ma è sicuramente un pensiero che può essere esteso a tutte le donne del mondo che hanno riscontrato la mia stessa “problematica”.

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  2. blogdibarbara ha detto:

    Scusa, ma dire “donna africana” non significa assolutamente niente: stiamo parlando di almeno mezzo centinaio di etnie diverse, vale a dire di culture diverse, da tutti i punti di vista, situazioni diverse, modi di vivere diversi. Parli per esempio di “sfoggiare la pelle”: ma quale pelle? Quale pelle se perfino gli occhi, l’unica parte del corpo, in molte parti dell’Africa, non coperta da stoffa sono coperti da occhiali neri? Per vedere pelle africana devi andare nelle foreste dove sopravvivono ancora le cosiddette culture primitive. E che in molte di queste culture gli uomini distruggano la vita delle donne non è un’idea che fa sorridere, bensì una tragica realtà che dovrebbe farci piangere. Nel tuo mondo utopico esiste la libertà di essere ciò che si vuole, ma è appunto un mondo utopico, ossia che non esiste in nessun luogo, e in Africa meno che mai. Tu hai vissuto in “Africa”? Io sì, in Somalia, un anno. E ho visto le donne (tutte) incapaci di fare passi più lunghi di venti centimetri a causa dell’infibulazione e, per la stessa ragione, impiegare anche mezz’ora per urinare, e morire di parto come mosche a quindici anni, e venire sposate a tredici senza la minima possibilità di opporsi, e subire botte stupri e ogni altra forma di violenza senza possibilità di sottrarsi, perché la gerarchia sociale è uomo poi cammello poi capra poi donna. Eccetera. Il rifiuto di guardare in faccia la realtà è la peggiore delle etichette.
    PS: “persona” è un sostantivo femminile singolare, quindi gli aggettivi e i participi passati ad esso apposti vanno concordati al femminile singolare: la persona presA. L’asterisco, oltre ad essere un orrore da acidità di stomaco, non esiste fra le desinenze della lingua italiana, né di nessun’altra lingua. Scusa la pignoleria da maestrina col ditino alzato, ma quegli obbrobri pseudo-femministi/progressisti, autentico insulto all’intelligenza e al buon senso, proprio non si possono vedere.

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    1. Akosua O.T. ha detto:

      Cominciamo dal presupposto che so benissimo di essere stata vaga senza troppi riferimenti specifici, ma questo non significa che non sappia di chi parli. Da subito ho precisato che non voleva essere una generalizzazione, ma delle percezioni e/o sentimenti che ho provato io! Ho parlato al plurale perché ho letto di storie simili alla mia….ma questo non vuole dire che non abbia presa in considerazione il fatto che esistano diverse etnie, culture, situazioni ecc ecc se avessi voluto esaminare delle realtà partendo anche semplicemente dal mio paese avrei dovuto spacchettare il discorso parlando per esempio della diversa concezione della donna ghanese fra diverse tribù, ma lo scopo prima di tutti gli altri era descrivere la terza dimensione che vivo io da donna nera in Italia.
      Da anni parlo di sfoggiare la pelle nera perché è quella che ho è nera, nera molto nera e parlo della mia, parlo di quelle simili alla mia perché non so cosa voglia dire avere una pelle diversa dalla mia.
      Tu mi dici che per vedere la vera pelle nera devo andare nelle foreste dove sopravvivono ancora le cosiddette culture primitive… non sono d’accordo… e stai purtroppo riportando una delle etichette che più voglio togliere su me stessa; sembra che tu voglia sottolineare ancora una volta che per ritrovare l’autenticità di quella pelle si debba correre in Africa, quando invece io sono qua essere vivente con la stessa pelle,ma con diverse dimensioni e problematiche.
      L’osservazione sul mondo “utopico” penso sia inutile, il gioco di parole sul mio mondo utopico è chiaro e non ha collocamento in nessuna realtà geografica conosciuta quindi non mi dilungo…
      In più sì in Africa ci sono stata, ma questo non c’entra ben poco con il mio articolo perché forse avrei dovuto specificare che parlo strettamente di quello che ho vissuto io come diaspora….
      Per quanto riguarda il resto prendo nota, ma un’altra etichetta che rifiuto è proprio quella del femminismo…..ne parlerò più avanti!
      Grazie maestrina per avermi dato una voce fuori dal coro perché questo nella mia (modesta) mente mi aiuta a capire che non ho espresso nel migliore dei modi quello che pensavo e che dall’altra parte ti è arrivato ben poco…

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      1. blogdibarbara ha detto:

        Non ho parlato di autenticità della pelle nera – espressione che francamente non ho idea di che cosa significhi: ho parlato della possibilità materiale di vederla. Delle mie studentesse trent’anni fa potevi vedere sempre il viso e le mani, quasi sempre collo polsi e caviglie, spesso parte delle braccia e delle gambe, mentre nelle donne di estrazione sociale più modesta che portavano gli abiti tradizionali, capitava facilmente di vedere anche le spalle e parte della schiena; oggi portano niqab guanti neri e occhiali neri, per lo meno nelle città. Più o meno idem per l’Egitto e da molte altre parti in cui il fondamentalismo islamico avanza annientando usi e costumi (in tutti i sensi) tradizionali. Ovvio che se vivi in Italia il discorso è diverso.
        Non avevo capito che sei nera, e questo probabilmente mi ha portata a fraintendere alcune cose, ma penso che la sostanza rimanga valida.
        Dovrei mandare qui un mio lettore che si incazza quando sente l’espressione “nero” o “pelle nera” perché il solo accorgersi che la tua pelle è diversa dalla mia, secondo lui, è già razzismo. Questo almeno quando viene da parte di un bianco – per quanto anche dire bianco contrapposto a qualcosa di diverso dal bianco è razzismo anche quello: chissà se troverebbe razzista anche te che la tua pelle nera la rivendichi – giustamente – con orgoglio.

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      2. Akosua O.T. ha detto:

        Assolutamente! come dicevo nel commento prima avrei dovuto specificare il contesto e pensavo fosse chiaro dalla mia descrizione che sono nera.
        Ho deciso di intraprendere questo percorso scrivendo esclusivamente riguardo a tematiche che vivo; non poteri per ovvie ragioni descrivere o esprimere sentimenti che si provano ad avere una pelle diversa dalla mia.
        Non trovo offensivo che un “bianco” parli dei neri o che utilizzi questi termini se lo fa con logica e rispetto, odio quando si utilizzano altre terminologie per indicare le persone nere come per esempio “di colore”.
        Sarebbe interessante capire il punto di vista di questo lettore di cui parli!!!
        La piccola chiave alla risposta del tuo ultimo quesito è che se non ci fossero così tante persone che dispregiano la mia pelle non avrei assolutamente bisogno di parlare della mia pelle…non avrei bisogno di rivendicare tutto ciò se non ci fossero dei sistemi razzisti instaurati in questa società odierna e aggiungo che “Pro black isn’t anti-white”.

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    2. Io, nata e cresciuta in Italia da genitori AFRICANI, mi ritrovo molto in quello che l’autrice dice nell’articolo. Gli stereotipi e le etichette che ci vengono affibbiate (giornalmente) pesano, pesano molto. Il saper cucinare, l’essere forti in qualsiasi situazione, l’accettare il presunto “potere” che l’uomo ha sulla donna, il dire sempre sì anche se magari non siamo d’accordo, sposarsi ed avere figli ad una certa età (per esser donna al 100%), sono tutte cose con cui son cresciuta. Per non parlare della dipendenza mentale che la cultura africana ha nei confronti di quella occidentale (per quanto riguarda l’estetica della donna). Per anni ho dovuto stirarmi i capelli con prodotti chimici per sembrare più occidentale e di conseguenza più bella, la donna con la pelle più chiara è automaticamente più attraente e ha più possibilità’ di successo nella vita. Ed è quello che IO, DONNA AFRICANA o DONNA AFRO-ITALIANA ho vissuto.
      Sentirsi dire che ‘donna africana’ non vuol dire nulla perché è un continente con tantissime etnie, da una donna che non ha vissuto sulla propria pelle cosa vuol dire essere Africana lo trovo al quanto stupido.
      Aver “vissuto” l’Africa, o meglio la Somalia per un anno, come dici tu, non ti da il diritto di contestare i sentimenti delle persone che vivono l’Africa, in diversi contesti, tutti i giorni. Vivere l’Africa non vuol dire far volontariato per 6 mesi, un anno, due anni in un paese africano, non vuol dire amare le culture africane ne tantomeno studiarle. Viverla vuol dire esserci dentro, crescerci, amarla e alcune volte odiarla, è parte di te in qualsiasi cosa fai, da quando ti svegli a quando vai a dormire. Quindi, NO, mi dispiace non l’hai vissuta, è stata, spero, una “bellissima” esperienza di crescita mentale, ma ripeto non l’hai vissuta.

      Hai visto donne che non riuscivano a fare passi lunghi e morire per via dell’infibulazione e secondo te questa è l’unica concezione di donna in Africa? O pensi che in tutta l’Africa non si riesce a vedere la pelle delle donne perché son coperte da un velo? Pecchi dello stesso peccato di cui accusi l’autrice. Generalizzi, ma ancor più grave, è che è una generalizzazione occidentale dell’Africa. È quella vedi dalle pubblicità in TV FATTE DA OCCIDENTALI, è quella che studi dai libri SCRITTI DA OCCIDENTALI, è quella che vedi quando fai volontariato, ORGANIZZATI DA OCCIDENTALI. È questo che non sopporto, persone come te, che sicuramente vogliono fare del bene nel ‘mio’ continente, che fanno la morale e vogliono insegnare agli Africani cos’è l’Africa.

      Per vedere la vera pelle nera non bisogna andare nelle foreste in Africa (che a parer mio è un insulto), basta solo guardarsi intorno. Mi rifiuto di essere considerata da te meno Africana o meno nera perché non abito in Africa. È un’assurdità. Ed è proprio questo quello che l’autrice voleva fare, raccontare delle etichette e stereotipi che la donna africana vive ogni giorno, in diverse parti del mondo, e cercare un posto utopistico (e ripeto utopistico, quindi non reale) dove tutto ciò che non esiste.

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      1. blogdibarbara ha detto:

        Vedo che non hai letto quello che ho scritto o, se lo hai letto, ci hai messo tutto l’impegno possibile a capire l’esatto contrario di quello che ho scritto. In queste condizioni non vedo alcuna possibilità di dialogo.
        Buon proseguimento.

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